APPROFONDIMENTI

La comunicazione medico-paziente come atto clinico

Quando la comunicazione medico-paziente è efficace, può diventare uno strumento clinico, in quanto può contribuire – insieme a quelli più classici – a un migliore decorso terapeutico del paziente.

È quindi interessante considerarla e praticarla in questo senso e con questa precisa finalità.

La letteratura scientifica viene in aiuto: dagli Anni ’90 a oggi, un ampio corpo di dati conferma che ci sono vaste aree di associazione tra qualità della comunicazione interpersonale e risultati clinici: da una maggiore risoluzione di alcuni sintomi, al miglioramento di determinati parametri fisiologici, fino al miglioramento dello stato di salute generale.

E ciò avviene concordemente a – o forse a causa di – una migliore aderenza al trattamento da parte del paziente e una sua maggiore auto-efficacia, ovvero una maggiore fiducia nelle proprie capacità di reazione e di gestione in senso attivo del percorso terapeutico.

Ma in cosa consiste, all’atto pratico, un’efficace comunicazione medico-paziente?

La sua definizione operativa è “la capacità del medico di suscitare e comprendere le preoccupazioni del paziente, di spiegare le questioni sanitarie e di impegnarsi in un processo decisionale condiviso, se desiderato”.

Una definizione che svela due attori e due ruoli, interdipendenti per il successo sia del processo di comunicazione, sia del percorso terapeutico.

Da una parte, infatti, il paziente è chiamato a comunicare apertamente al medico sintomi e timori rispetto alla condizione o al percorso, e deve assicurarsi di aver compreso gli elementi determinanti della patologia e dell’iter terapeutico.

Dall’altra, il medico deve creare le condizioni per cui il paziente si senta a proprio agio nel farlo, e comunicare il percorso di trattamento in modo chiaro, accessibile ed empatico – controllandone poi l’effettiva comprensione.

Le tecniche da mettere in pratica a questo scopo non sono particolarmente complesse per il medico: si tratta, piuttosto, di modalità specifiche con cui condurre i colloqui e le visite che si eseguono come normale protocollo.

Modalità che, per quanto semplici, fanno la reale differenza a livello di comunicazione e relazione con il paziente, e che quindi vale la pena focalizzare e attuare di routine.

Tra le più pragmatiche abbiamo, ad esempio:

  • Utilizzare il linguaggio del corpo: parlare al paziente da seduti

Il linguaggio del corpo è parte integrante della comunicazione interpersonale.

Instaurare un dialogo da seduti ci pone allo stesso livello visivo del paziente e aiuta ad abbattere alcune delle principali barriere che egli avverte nella comunicazione con il curante, come il timore di un atteggiamento giudicativo o di avere a disposizione tempi troppo brevi per ricordarsi bene tutto ciò che c’è da dire o per capire a sufficienza tutto ciò che vien detto loro.

  • Fare domande aperte

Non sempre i pazienti si sentono a proprio agio a dar voce a tutte le preoccupazioni, i dubbi, i sentimenti che nutrono verso la specifica condizione di salute, né a come stanno cercando di gestirla.

Per riuscire ad avere un quadro completo, è utile quindi seguire un percorso di domande pensato per incanalare il racconto da parte del paziente; utilizzare a questo scopo una sequenza strutturata di domande aperte permetterà di raggiungere lo scopo, ovvero di facilitare il racconto senza tuttavia influenzarlo.

Una delle tecniche proposte va sotto il nome di B.A.T.H.E., acronimo delle aree che permette di approfondire, – ovvero Backgroud, Affect, Trouble, Handling e Empathy.

Nell’articolo del prossimo mese approfondiremo questo approccio e la sua ricaduta sulla pratica clinica quotidiana, anche in termini di risparmio di tempo complessivo.

  • Usare un linguaggio semplice e accurato

Quando parliamo con i pazienti ci troviamo spesso davanti al bivio tra un lessico medico, che ci garantisce l’accuratezza delle informazioni che intendiamo passare, e un registro più semplice, con vantaggi evidenti in termini di comprensione che ci sembrano però sacrificare l’esattezza di ciò che diremo.

Per questo motivo, siamo spesso tentati di non abbandonare il linguaggio clinico, che ci permette inoltre di restare maggiormente nella nostra zona di comfort.

Anche questa volta, tuttavia, l’efficacia della nostra comunicazione risiede fuori da quella zona.

Ogni volta in cui sia possibile, infatti, è bene sostituire i termini tecnici con altri più comuni: ciò risulta fattibile nella maggioranza dei casi, con una perdita di accuratezza marginale e ininfluente ai fini dell’iter clinico.

Nei casi – minoritari – in cui ciò non avvenga, si utilizzerà il gergo specifico, provvedendo però a darne contestualmente una definizione o una spiegazione con parole semplici, meglio se supportate da esempi, da analogie di carattere pragmatico, o da visualizzazioni grafiche in semplici disegni.

Approfondiremo anche quest’area in un dei prossimi articoli, indagando il vissuto dei pazienti e dei medici, e i risvolti sull’iter terapeutico.

  • Controllare sempre di essere stati capiti

Anche se ci sembra di essere stati il più chiari possibile, potremmo non esserlo stati affatto.
E non importa se la stessa spiegazione ha già funzionato con svariati altri pazienti.
Perché ogni interlocutore è diverso, e arriva da un background e una storia differente.

Non sapremo mai se siamo stati chiari finché non lo chiederemo.

Ma se lo chiediamo in maniera diretta sappiamo che la risposta che riceveremo sarà quasi sicuramente positiva.

E anche questo non ci garantisce nulla.

Perché in quel rispondere positivamente entrano in gioco fattori che con la reale comprensione hanno ben poco a che fare, e che sono invece più legate alla posizione subalterna del paziente verso il medico, o alla ritrosia che impedisce di confessare una limitata comprensione.

Come uscire dal vicolo cieco?

Una delle tecniche proposte è il cosiddetto teach-back, in cui – a spiegazione avvenuta – si chiede al paziente di spiegare con parole proprie quanto appena appreso, in modo da poter apportare – immediatamente e in presenza – tutti i correttivi richiesti, se necessari.

Questa tecnica ha dato prova di efficacia in svariati ambiti, compresi alcuni particolarmente tangibili come la percentuale di ri-ospedalizzazione di pazienti con insufficienza cardiaca dopo una prima dimissione ospedaliera.

A riprova, ancora una volta, che la comunicazione medico-paziente è, a tutti gli effetti, un atto clinico.

In pillole:

  • Una comunicazione medico-paziente efficace si associa in generale a outcome clinici In questo senso, è pertanto da considerarsi un atto medico
  • La comunicazione interpersonale può risultare efficace solo se è a due vie: medico e paziente hanno entrambi un ruolo nel processo
  • Per creare le condizioni che facilitino una disclosure totale da parte del paziente, è utile che il medico scelga modalità specifiche per la conduzione di visite e colloqui, dimostratesi efficaci allo scopo. Ne sono esempio
    – l’utilizzo del linguaggio non verbale, come parlare al paziente da seduti
    – il porre domande aperte in una sequenza specifica, come nel metodo B.A.T.H.E.
    – l’utilizzo di un linguaggio quanto più semplice possibile in relazione al livello di accuratezza
    realmente adeguato all’iter
    – il non dare per scontata la comprensione da parte del paziente: meglio sempre controllare,
    come nella tecnica del teach-back

Per approfondire:

Beaulieu MD, et al. Interpersonal communication from the patient perspective: comparison of primary healthcare evaluation instruments. Health Policy. 2011 Dec;7(Spec Issue):108-23

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